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"MY AUTOBIOGRAPHY"

Ian Rush

Ebury Press - 1996

Si tratta di una bellissima autobiografia, molto sincera e ricca di spunti, come nella tradizione di questo tipo di pubblicazioni anglosassoni.

Il libro – dedicato anche “alla Juventus FC, che mi ha consentito di crescere” - è stato scritto nel 1996, quando Rush si accinge a lasciare il Liverpool per chiudere la carriera al Leeds. Il primo capitolo parla proprio di questo: di cosa è stato per lui il Liverpool, delle ragioni per cui va via (con Collymore e Fowler avrebbe giocato pochissimo) ma anche delle grandissime motivazioni per il nuovo anno e della speranza di segnare ad Anfield (l’abitudine di non esultare davanti ai propri ex tifosi era ancora là da venire, per fortuna...).

Poi inizia il racconto dell’infanzia. La nascita a Flint, ultimo di dieci figli; la stanza divisa con i cinque fratelli maschi, il padre operaio siderurgico (acciaio) e la madre che fa lavoretti per arrotondare.  La meningite a sei anni per poco non se lo porta via (rimane in coma qualche giorno), ma poi la vita va più o meno come quella dei coetanei, senza grossi successi nello studio.

Maggiore fortuna ha fin da piccolo nel calcio, giocando in vari tornei. A sedici anni viene notato dal Liverpool ma rifiuta di trasferirsi, non sentendosi pronto. Oltretutto, a differenza del padre (che tifa per i reds) lui stravede per l’Everton, che curiosamente sarà una delle sue vittime preferite: in carriera gli rifilerà ben 28 gol, di cui 4 solo in un terribile 0-5 a Goodison Park. In ogni caso, l’anno successivo va a giocare al Chester, third division. Il racconto di quell’esperienza è un mix di romanticismo e brutalità: la “serie C” inglese di fine anni settanta era fatta di vecchi archibugi, nonnismo e intimidazioni di ogni tipo. Il giovane Ian - che allora faceva l’esterno di centrocampo – lavora duro sulla resistenza (da scattista, non era il suo forte), ma soprattutto impara a schivare i colpi terrificanti che sibilano sui quei campacci e ad ignorare le provocazioni. Dice da subito, nel libro: “ho sempre pensato che la maniera migliore di vendicarmi fosse segnare un gol” (pensiero condiviso da molti altri bomber, come Hugo Sanchez).

Un giorno, in pullman, Oakes - il manager del Chester - gli comunica che il Liverpool ha fatto un’offerta enorme per lui, e gli darebbero 30 sterline alla settimana. Rush ci pensa, va col padre ad Anfield Road a parlare con Bob Paisley (una leggenda) e stavolta firma. Quando sta partendo, Oakes gli dice: mi maledirai per averti fatto andare, il prossimo anno sarà il peggiore della tua vita; ma hai stoffa e se resisterai farai una grande carriera. Lui lì per lì non capisce, ma ci mette poco. Il Liverpool in quegli anni è probabilmente la squadra più forte del mondo, e un ambiente tosto: sono tutti veterani e nazionali. Dalglish nella prefazione del libro dice che il primo giorno hanno visto entrare questo tipo allampanato con il baffetto appena scolpito, e sono scoppiati a ridere. Lì lo massacrano di soprannomi per i baffi (il primo è Omar, da Omar Sharif), per come si veste (dov’eri, ad aggiustare la macchina?) e lui – che si definisce timidissimo: “painfully shy” - soffre come un dannato e li odia tutti, soprattutto Dalglish. In più gioca (in attacco, ora…) solo nella squadra B; il fatto di essere stato pagato 350.000 sterline gli mette molta pressione e – dice lui – provoca invidia in molti compagni.

Il secondo anno va meglio, ma ancora la prima squadra non la vede, e neanche i soldi che pensa di meritare... Quando chiede il perché a Pailsey, lui glielo spiega: non stai segnando, non hai il coraggio di prenderti responsabilità. Lui si imbestialisce (come voleva Paisley....) e prende una decisione: al diavolo la squadra, da domani penso solo a segnare. E diventa il Rush che abbiamo conosciuto…

Dopo la coppa dei Campioni vinta nel 1981 (in cui Ian gioca la semifinale) Paisley viene sostituito da un membro dello staff, Joe Fagan, che diverrà un altro mito del calcio. Rush con lui gioca titolare ed inizia a macinare tra i 30 ed i 45 gol a stagione, con il primo double Coppa di lega – campionato. L’anno successivo (83-84) si ripete, ed è l’anno della finale con la Roma: nel libro si descrive l’accoglienza (all’aeroporto pietre, monetine… di tutto; poi allo stadio fumogeni e petardi potentissimi) e l’assoluta convinzione di vincere, tanto che non avevano minimamente deciso chi eventualmente avrebbe tirato i rigori (in effetti, guardando il filmato su Youtube  si vede Tancredi che aspetta minuti in porta e si spazientisce). Rush ricorda di aver avuto fortuna a segnare il suo, tirato debolmente, ed anche lui come Graziani se la prende con i flash dei fotografi dietro la porta; rimane, poi, particolarmente sorpreso dalla paura di Conti prima di tirare (“uno che ha vinto un mondiale!”).

Comunque la seconda coppa dei Campioni arriva. Subito dopo giunge l’offerta del Napoli, e nel libro si racconta un aneddoto piuttosto curioso. Emissari di Ferlaino contattano il suo agente ed offrono a Rush un milione di sterline solo per firmare (più 3 al Liverpool). Lui sta benissimo dov’è ma perde la testa per i soldi e cerca disperatamente il presidente del Liverpool, che però è a Londra a vedere il torneo di Wimbledon e non si trova… mancano 48 ore alla chiusura del mercato in Italia, e quando lo rintracciano dice comunque no (Rush gli toglie la parola per mesi). Quindi il Napoli vira su… Maradona.

L’anno che segue è quello dell’Heysel… Nel libro c’è un capitolo intero su quella sera: lo sconcerto quando vedono lo stadio il lunedì (decrepito, spogliatoi piccoli e senz’aria…), la fiducia per la partita (la Juve era forte ma li avrebbe temuti, dopo la finale di Roma). Nel briefing prepartita lui ed i compagni sono preoccupati, si dicono che i tifosi così mischiati possono essere un problema, ma si accorgono del disastro solo quando si stanno cambiando e sentono il rumore del crollo di un muro. Escono fuori di corsa, guardano per prima la tribuna con i parenti, poi la curva Z. Li fanno rientrare dentro, gli dicono tante cose diverse ma dalla finestra dello spogliatoio-sgabuzzino vedono passare le barelle, sentono le urla, e capiscono. I giocatori della Juve sono distrutti almeno quanto loro, alcuni sono più che altro arrabbiati, anche con loro. Tardelli gli passa a fianco e con un gesto che Rush definisce “disgustoso” gli dà “una gomitata in faccia”. Poi li obbligano a giocare, e Rush pensa – sia allora che quando scrive – che sia stato giusto. Sulla partita dice che tecnicamente non contava nulla, e non è neanche il caso di parlare del rigore fuori area.

Dopo quella dannata partita Fagan va via ed arriva Dalglish come player-manager. Ovviamente tutto il calcio inglese è sotto shock, e soprattutto l’esclusione dalle coppe per cinque anni è pesantissima. Rush gioca una buona annata 85-86, ma poi lui ed il club iniziano a valutare le offerte estere, che alla fine sono due: Barcellona e Juventus. Nonostante la prima abbia condizioni economiche migliori, Ian sceglie la Juve, ma resta un altro anno in Inghilterra (perché Platini viene convinto a fare un ultimo anno e lui rifiuta il prestito alla Lazio).

Il capitolo sull’esperienza italiana si intitola “Il gusto amaro della dolce vita” ed inizia così: “Un famoso proverbio italiano dice <<Vedi Napoli e poi muori>>. Io ne ho coniato un altro: <<passa un anno alla Juventus e muori un migliaio di volte!>>”. Lo dice nel senso che durante quell’anno passa da eroe a brocco mille volte, e sull’argomento tornerà spesso. Fin da subito, complici le difficoltà con la lingua (di cui si assume la piena e grave responsabilità) le cose non vanno nel verso giusto, né in campo, né fuori: nello spogliatoio, a parte l’aiuto di Tacconi, Brio e soprattutto Bruno, si accorge di essere abbastanza isolato, a suo avviso anche per gelosia verso le attenzioni di Agnelli (che passa con lui una ventina di minuti ogni settimana). Nel ritiro svizzero, Platini (che aveva smesso ma era lì per rimanere in forma) un giorno lo prende da parte e gli dice: Ian, hai sbagliato a venire qui ora, la squadra non ha qualità, soprattutto a metà campo, e non migliorerà. La diagnosi si rivela azzeccata: non si vede un pallone giocabile, ed a Natale la situazione è abbastanza compromessa. A ciò si aggiungono problemi con la stampa e con il proprietario della sua casa, mentre il rapporto con i tifosi era e rimarrà molto buono. A gennaio la società gli riconferma fiducia, e Rush decide di fare come con Paisley nell’81: pensare solo al gol, e quindi a sé. In parte funziona (racconta del 2-6 a Pescara, con Marchesi che lo toglie a venti minuti dalla fine e gli dice: tieni gli altri gol per la prossima!), ma non del tutto: le difese sono arcigne e smaliziate (trattenute, pizzichi, pugni, gomitate), e spesso lo marcano addirittura a uomo… Oltre all’attendismo (“i primi tempi non servivano a nulla”) lo colpiscono le simulazioni: sa che accadono in tutto il mondo, ma in Italia sono “una forma di arte”. La stagione finisce con il minimo sindacale, lo spareggio con il Torino ed il suo rigore decisivo.

Nonostante la fiducia ribadita dalla società  - confermata dai tentativi di acquistare Beardsley e Hughes, da lui indicati a Boniperti insieme a Barnes - il mancato passaggio di Laudrup al PSV crea le condizioni per la partenza di Rush, (erano, infatti, già arrivati Rui Barros e Zavarov).

L’offerta del Liverpool non giunge inaspettata, e viene accettata in pochi giorni. Il rendimento è inizialmente frenato da difficoltà fisiche e soprattutto dalla tragedia di Hillsbrough, che si somma a quella dell’Heysel. Però la squadra è forte e riprende a vincere, anche se non a dominare come prima. L’ultima giornata del campionato basterebbe non perdere con due gol di scarto in casa contro l’Arsenal per vincere il titolo; finirà proprio 0-2, con il famoso gol di Michael Thomas, mentre Rush si toglieva la giacca della tuta per festeggiare…

A metà dell’anno successivo Dalglish si dimette e la stagione va un po’ così. Subentra Graeme Souness, di cui Rush racconta cose mirabili per forza, coraggio, resistenza al dolore quando giocava. Se un avversario esagerava a picchiare uno di loro, lui si avvicinava serio, calmo, e gli diceva: fagliene un altro così e ti troverai “me as opponent”; quasi sempre, il problema era risolto. Queste stesse doti si rivelano, tuttavia, dannose nel mestiere di manager: per la eccessiva durezza degli allenamenti, infatti, Souness si ritrova mezza squadra infortunata in pochi mesi (precisazione: gli allenamenti killer li faceva per primo lui stesso, a 45 anni..).

Con il racconto di questa annata Rush conclude il libro, o meglio… torna all’inizio: la nuova era al Liverpool, lo spazio per giocare che si riduce, e la decisione di chiudere al Leeds.

In realtà, nell’appendice il volume contiene altri tre bellissimi capitoli: uno sulla squadra ideale dei giocatori con cui Rush ha giocato (c’è molto Liverpool 1984, più McMahon e Molby), un altro sulla carriera in nazionale, il terzo sulle doti che deve avere un attaccante.

 

Nel complesso, il libro mi è piaciuto moltissimo perché contiene tante storie interessanti, raccontate con un’incredibile ma amabile ingenuità; la stessa ingenuità che ha caratterizzato nel secolo scorso il calcio inglese, portandolo ad essere molto autoreferenziale e “disconnesso” dal resto del mondo, ma al contempo garantendogli un’identità ed una forza che oggi in molti rimpiangiamo.

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