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"IL CASO AYRTON SENNA"

Nicola Santoro

Go Ware -2014

Si tratta di un libro estremamente interessante, che non riguarda direttamente Senna ma in parte lo racconta, attraverso il processo che ha cercato di stabilire le cause della sua morte.

Per la precisione, l’Autore si sofferma sul processo di primo grado, svoltosi tra il 1996 ed il 1999 e seguito come giornalista del settimanale Rombo. L’ultima edizione del libro ha, però, in appendice un importante capitolo sull’esito dei successivi gradi di giudizio.

Senna morì all’ospedale di Bologna alle 18: 40 del primo Maggio 1994. Le indagini ed il processo si sono svolte, però, ad Imola, perché il reato ipotizzato – omicidio colposo – derivava da una condotta tenuta nell’autodromo, ossia aver affidato al pilota una macchina non sufficientemente sicura.

E qui si arriva ai due punti principali su cui si sofferma il libro:

1) il processo aveva un senso?

2) è stato condotto con mezzi e modi sufficienti per giungere alla verità sulle cause dell’incidente?

La prima domanda ha una risposta molto semplice e precisa, per chi vive in Italia: nel nostro ordinamento vige l’obbligatorietà dell’azione penale, per cui, dinanzi ad un possibile reato (anche colposo), la magistratura è tenuta ad aprire un fascicolo e ad iniziare le indagini. Nei sistemi di Common Law, invece, l’azione penale è esercitata discrezionalmente dai magistrati, e trova un filtro iniziale addirittura nella polizia giudiziaria. Si tratta, chiaramente, di due modelli del tutto diversi, che derivano da una concezione molto differente del diritto, della giustizia, della responsabilità personale, del rischio. 

Ed infatti pare che i primi avvisi di garanzia notificati in Inghilterra furono accolti con sincero stupore ed una punta di fastidio. La stessa reazione si ebbe in una parte del mondo della Formula 1, che, nonostante lo shock per la tragedia, non concepiva procedimenti penali su un evento legato ad un’attività così pericolosa. Max Mosley, presidente inglese della FIA ed avvocato, ventilò l’ipotesi di non correre più in Italia e rimarcò che dalle sue parti non si sarebbero mai sognati di fare un processo su un caso simile; Flavio Briatore fece dichiarazioni simili e piuttosto polemiche.

Le testimonianze dei piloti nel processo, poi, furono giudicate reticenti o comunque condizionate da uno spirito corporativo, oltre che dall’interesse a non inimicarsi possibili futuri datori di lavoro. La recente autobiografia di Damon Hill, ad esempio, è stata molto criticata perché contiene molti dettagli sull’incidente di Senna e sui giorni successivi, che nel dibattimento il pilota inglese avrebbe dichiarato di non ricordare.

Già le prime indagini si svolsero in questo contesto. I rilievi in pista furono eseguiti per la Procura dalla Polizia stradale di Imola; l’autopsia chiarì subito la causa diretta della morte (un giunto della sospensione di forma cilindrica staccatosi nell’urto, detto uniball, trafisse Senna come un arpione all’altezza della visiera).

Le possibili cause dell’incidente, invece furono ipotizzate man mano che si raccoglievano dati e deposizioni.

I dubbi sulla tenuta del casco, sollevati marginalmente sulla stampa, costrinsero la società produttrice a certificare la piena affidabilità del suo prodotto. Ciò fu confermato in fase istruttoria da una perizia, secondo cui l’uniball penetrò con una forza “doppia rispetto ai proiettili usati per la caccia al rinoceronte”, per cui neanche un casco del peso di venti chili avrebbe potuto trattenerlo o respingerlo.

Il settimanale Rombo, inoltre, ipotizzò un cedimento della sospensione (su cui Senna aveva espresso preoccupazioni), ma anche questa ipotesi non trovò conferme.

Alla fine furono individuate tre possibili motivi dell’uscita di pista:

  1. le sconnessioni della pista, ed in particolare la non complanarità tra l’asfalto della curva del Tamburello e la banchina di sicurezza prima del muro (lo spazio di fuga in cemento), sulla quale la macchina di Senna avrebbe trovato una specie di trampolino che avrebbe impedito una frenata corretta;

  2. una perdita di pressione delle gomme, che si sarebbero raffreddate nei giri percorsi dietro la pace car dopo l’incidente di inizio gara tra Lehto e Lamy (c’è da dire che già in Brasile Senna ed altri piloti si erano lamentati per la scarsa velocità delle pace cars: in quel caso era una Fiat Croma, ad Imola una Opel Astra…);

  3. la rottura del piantone dello sterzo. L’ipotesi nacque dall’osservazione da una celebre foto realizzata dal fotografo  Angelo Orsi e pubblicata sulla copertina di Autosprint, in cui a pochi metri dai piedi di Senna, attorniato dai soccorritori, si vedeva il volante con un pezzo del piantone, particolarmente sottile. Si scoprì che una delle lamentele principali di Senna ed Hill ad inizio stagione riguardava il pochissimo spazio sopra ed attorno al volante, tanto che dopo pochi giri le nocche si ingrossavano ed iniziavano a sanguinare. Il problema fu attenuato (se non risolto) limando internamente la scocca e riducendo la lunghezza del piantone mediante l’innesto su un pezzo iniziale più grosso di uno finale più sottile e più fragile.

Delle tre ipotesi, due chiamavano in causa la Williams ed una la proprietà e la direzione dell’autodromo di Imola.

Dunque, alla fine delle indagini preliminari, durate ventuno mesi, furono rinviati a giudizio Frank Williams (proprietario della scuderia), Patrick Head (direttore tecnico e comproprietario), Adrian Newey (progettista della Williams FW16), Giorgio Poggi (direttore dell’autodromo) Federico Bendidelli (amministratore delegato della società SAGIS,  che gestiva la pista) e Roland Bruynserade (direttore della corsa).  

Il processo di primo grado si aprì il 20 febbraio 1997 e per ragioni di spazio l’aula pretorile viene ricostruita in una location piuttosto singolare (il salone delle feste del palazzo dei Circoli) con sessanta posti e un megaschermo.

Nel corso del dibattimento l’accusa si concentrò progressivamente sulla terza causa, ovvero la rottura del volante. La difficoltà di reperire alcuni importanti elementi di prova - la scatola nera della telemetria Williams era danneggiata in maniera che a qualche perito apparve sospetta; i dati di un’altra centralina vennero consegnati su dei dischetti magnetici;  le immagini della camera car di Senna furono fornite in ritardo e si interrompevano pochi secondi prima dell’uscita di strada; dell’apparente reticenza di alcune testimonianze si è detto - sollevarono varie polemiche sulla stampa. Dati certi arrivarono, invece, dalla centralina del motore, che la Renault consegnò integra.

A quel punto il problema centrale diventava stabilire quando e perché il piantone si era rotto.

Secondo la Procura,  la rottura era avvenuta mentre Senna percorreva il Tamburello ed a causa dell’affaticamento del metallo con cui era avvenuta la modifica.

Per le difese di Williams, Head e Newey, invece, il volante si ruppe prima dello schianto ma dopo l’uscita di pista, anzi a causa di questa e dei relativi sobbalzi. L’affaticamento del pezzo non venne negato, ma considerato meno consistente e comunque non rilevante. Dai dati della telemetria, infatti, si dedusse che in 280 millesimi Senna, già sulla banchina, riuscì a compiere ben tre azioni: togliere il piede dall’acceleratore; frenare fino a circa 120-160 km/h; compiere un piccolo scarto a sinistra con l’obiettivo di aumentare l’angolo di impatto. Quest’ultima operazione testimoniava che, quando la macchina era già sulla via di fuga, il volante reagiva ancora agli impulsi del pilota.

Alla fine il processo (che per alcuni imputati si è svolto in primo grado, appello, cassazione, nuovo appello, nuova pronuncia della Corte di cassazione) ha portato a quattro assoluzioni piene (Poggi, Bendinelli, Bruynserade, Williams), una soddisfacente (Newey) ed una che, nelle pieghe delle interpretazioni delle formule processuali, lascia una piccola ombra sul direttore tecnico della Williams (nonostante l’opposizione della difesa, la Corte di Cassazione ha confermato la prescrizione, ma il fatto che non abbia applicato l’art. 129 secondo comma del codice di rito  - secondo cui “Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta” - ha fatto ritenere ad alcuni che la colpevolezza di Patrick Head non sia stata esclusa in termini assoluti).

Si può, dunque, tornare alle due domande di partenza.

Il processo era necessario? Anche a prescindere dai principi del nostro ordinamento penale, credo che si possa convenire con l’Autore del libro, secondo cui un incidente di tale portata e di tale stranezza meritava un approfondimento in un’aula di giustizia.

Ma ecco la seconda domanda: questo approfondimento è stato adeguato? Un processo di quel livello, con gli ultimi quattro secondi di vita di Senna esaminati millesimo per millesimo sulla base di perizie di grandissima complessità (con un costo complessivo stimato in circa 10 miliardi di lire), è riuscito ad offrire una spiegazione chiara e convincente? Santoro non pare esserne troppo sicuro, e cita in particolare una circostanza obiettivamente singolare. L’impianto dell’accusa, come si è detto, si è basato sulla modifica del piantone dello sterzo; ma né chi gestì materialmente quella modifica (il responsabile dell’ufficio tecnico Gavin Fisher, espressamente menzionato dalla difesa di Newey, ed il tecnico Kevin Young), né l’ingegnere di pista di Senna (David Brown) sono stati sentiti in sede istruttoria o nel corso dei dibattimenti.    

Il libro si conclude con una frase letta su un traliccio vicino al monumento che è stato eretto a Senna, proprio dietro la curva del Tamburello. Un anonimo graffitaro ha scritto “AYRTON, PER UN TUO ERRORE NON SARESTI MAI MORTO”. Una ”assoluzione” condivisa e non necessaria, che per Santoro costituisce forse l’unica verità sulla fine di Senna. 

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