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"IL TENNIS L'HA INVENTATO IL DIAVOLO"

Adriano Panatta

Sperling & Kupfer 2019

Alla soglia dei suoi 70 anni Adriano Panatta ci regala un altro libro molto interessante. Se in Il tennis è musica, pubblicato un anno fa, descriveva l’evoluzione del gioco nell’era Open, con quest’ultimo volume l'Autore copre tutta la storia del tennis e ne sottolinea un carattere assolutamente peculiare.

Più di tanti altri sport, infatti, il tennis si basa su leggi spietate ed equilibri delicatissimi, che costituiscono i dettagli in cui – secondo il noto proverbio – il diavolo suole nascondersi.

Il loro elenco sarebbe molto lungo; i primi che mi vengono in mente sono questi: 1) ogni singolo punto può essere deciso per questione di millimetri (e solo recentemente la tecnologia consente di evitare errori); 2) non essendoci limiti di tempo, teoricamente (ma neanche troppo) ogni punto può essere l’inizio della riscossa o della rovina; 3) si può perdere facendo più punti dell’avversario; 4) fatta eccezione per  i rari tornei a squadre (ed ovviamente per quelli di doppio) in campo si è maledettamente soli: il tennis è probabilmente l’unico sport professionistico a non ammettere in campo gli allenatori dei giocatori, che devono accontentarsi di fugaci contatti (per lo più visivi) dalle tribune.

Il libro in commento conferma che la gestione di queste tremende circostanze rappresenta una parte decisiva dell’abilità di un tennista, spesso ben più della tecnica di base. Panatta, infatti, attinge al suo grande database di ricordi per descrivere molti casi in cui giocatori più o meno famosi sono riusciti a superare le difficoltà che il “diavolo” del tennis poneva loro davanti, oppure hanno finito con il soccombere ad esse.

Si tratta di tante bellissime storie, che spesso inevitabilmente esulano dal solo ambito del campo, e che vengono divise nel volume in “gironi” di ispirazione vagamente dantesca, contrassegnati da alcuni tratti comuni.

Si parte con il girone di personaggi a cui il diavolo ha conferito alcune sue fattezze (a Tiriac l’astuzia, a Kyorgios la sfrontatezza) e dei “poveri diavoli” a cui il destino ha messo davanti avversari inavvicinabili (è il caso di Roddick con Federer), per poi passare al “girone della sfiga” con la maledizione dei tanti Grandi Slam sfumati (da ultimo, Serena Williams) e con le carriere funestate da gravi infortuni (Blake, Del Potro, ancora Serena).

Nel girone dei tennisti “matti” troviamo i profili interessanti di Paolo Canè e soprattutto di Tappy Larsen, per finire con quello di Fabio Fognini.

Segue il “girone delle vite scellerate”, in cui rientrano giocatori di grande valore (Goold, Tanner ed il sommo Bill Tilden) che hanno macchiato o rovinato la propria carriera con comportamenti delittuosi, mentre nel successivo “girone dei dimenticati” compaiono figure che hanno pagato un prezzo altissimo in termini di successi, a causa di nobili scelte personali o di misfatti altrui.

Più vicino al modello della Divina Commedia pare il “girone degli haters”, ma in realtà anche qui vengono narrate storie sia di chi ha utilizzato la rivalità esasperata come combustibile per raggiungere buoni risultati sportivi (Pancho Gonzales), sia di chi è stato vittima di vessazioni e discriminazioni, uscendone sconfitto o vincitore (Von Cramm, Bahrami).

Un capitolo speciale è, poi, dedicato al torneo di Wimbledon, teatro di sfide caratterizzate da esiti particolarmente “diabolici”: molto bello, in particolare, il racconto della splendida finale del 2019 tra Federer e Djokovic, e del match infinito tra Isner e Mahut, durato più di 11 ore (divise in tre giorni) e conclusosi al quinto set con il punteggio di 70-68.

L’ultimo girone esaminato è quello “delle vite difficili”, e qui la narrazione verte sui casi in cui il tennis ha orientato cammini esistenziali travagliati, talvolta con esiti positivi (la bellissima storia di Karl Behr e quella più recente di Ashleigh Barty) ed a volte con un finale tragico (Jiro Sato, che non resse alla pressione ed alla responsabilità del suo ruolo in coppa Davis).

Nel capitolo conclusivo, dedicato a Matteo Berrettini, più che un girone si descrive la speranza rappresentata dai “diavoli futuri”, tra i quali potrebbe figurare – e sarebbe ora… – qualche esponente italiano. Al momento della pubblicazione del libro la stella di Jannik Sinner era già piuttosto brillante, ma, forse per un mix di scaramanzia e prudenza, Panatta gli dedica solo un fugace riferimento, riportando i buoni auspici di Boris Becker. C’è da augurarsi e credere che questa lacuna andrà colmata nelle prossime edizioni del volume…

Nel complesso, il libro è assolutamente godibile sia per il numero e la ricchezza delle storie narrate, sia per la leggerezza e l’ironia che caratterizza la scrittura.

Inoltre, lo schema generale dell’opera consente al lettore di scegliere un suo personale percorso, perché la suddivisione dei vari ritratti è stata operata con criteri non rigidi ed anzi molto spesso parzialmente sovrapponibili.

A questo proposito, devo dire che il titolo del libro mi aveva fatto ipotizzare una struttura diversa del testo: non la carrellata di storie legate da alcuni aspetti generali del tennis, ma una descrizione dei caratteri diabolici del gioco, effettuata magari con il più o meno diretto richiamo ai gironi propriamente danteschi e attraverso la citazione dei giocatori maggiormente rappresentativi di ciascun “peccato”.

C’è, infatti, da scommettere che le categorie di tradimento, frode, violenza, eresia, ira/accidia, avarizia, golosità e lussuria avrebbero trovato tra i tennisti autorevoli esponenti e consentito a Panatta di fare riferimento al grande patrimonio di aneddotica di cui è portatore.

In ogni caso, ed in attesa di un prossimo libro ispirato da queste od altre suggestioni, la più recente fatica letteraria di Adriano Panatta merita certamente grande apprezzamento.

 

 

 

 

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