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"MY STORY"

    Paul Gascoigne 

Headline Publishing - 2004 

Dunque alla fine fu Paul John. Lui stesso racconta che la madre Carol, fan sfegatata dei Beatles, rimase in dubbio fin sulla porta dell’ufficio anagrafe, ed è lì che McCartney prevalse su Lennon.

In realtà, John era anche il nome del padre di Gascoigne (cognome di origini francesi), scomparso nel 2018: muratore nell’impresa del futuro suocero, poi trasportatore in Inghilterra (e per qualche anno ad Amburgo). Una persona con vari problemi - alcuni li avrà anche Paul - che viene descritta come piuttosto assente nella crescita dei figli.

Al contrario, nel libro la madre risulta come una figura centrale e molto attenta, nonostante i tanti lavori (operaia  in una fabbrica di abbigliamento, addetta alle pulizie in vari locali, commessa in un negozio) che è stata costretta a fare, anche contemporaneamente, per far fronte alle esigenze della famiglia.

Prima di Paul era arrivata Anna Maria (altro nome tratto dal mondo dello spettacolo, in questo caso da The sound of music), poi seguirono Carl e Lindsay.

I Gascoigne si stabiliscono in una piccola casa popolare di Gateshaed, città satellite di Newcastle. Nonostante le ristrettezze economiche ed il rapporto turbolento tra i genitori, l'infanzia viene descritta come abbastanza serena. Le prime avvisaglie dei più seri problemi che sorgeranno in seguito si manifestano molto presto: il pensiero della morte lo assale a sette anni mentre guarda le stelle rientrando da una serata di giochi, e diventa poi ricorrente; a ciò si aggiunge il senso di colpa per la morte di Steven, fratellino del suo amico undicenne Keith, che sfugge alla loro custodia e viene investito da un furgone.

Gascoigne sostiene che per superare quelle paure e quel trauma avrebbe avuto bisogno di un aiuto medico, e che solo la madre si accorse della gravità della situazione; ma dopo un paio di visite presso medici locali, e complice il parere negativo del padre, la cura non ebbe seguito.

Gli unici palliativi efficaci si rivelarono lo sport (era molto bravo in calcio, tennis, badminton) ed i dolciumi. Con il pallone già da piccolo aveva dimostrato doti non comuni; quanto ai dolci (in particolare il Mars, che gli fu in seguito tirato negli stadi, finchè non iniziò a mangiarli prima di battere i corner :-)) lo accompagnarono per diverso tempo portando qualche chilo di troppo, prima di essere sostituiti dal più dannoso alcol. Gascoigne dice di averlo incontrato per la prima volta a 14 anni, e di essere stato così male da non abusarne fino a 18.

Sempre a 14 anni inizia la sua carriera nelle giovanili del Newcastle e segue la trafila di quei tempi, nonnismo compreso. A Paul, in particolare, viene affidata la pulizia delle scarpe di Chris Waddle, che lo bullizza abbastanza. E’ l’allenatore di quel periodo, Colin Suggett, a dargli il soprannome di Gazza: in realtà sarebbe “Gassa” (come veniva chiamato il padre di Paul, con una sorta di diminutivo del cognome), ma Suggett ha l’accento di Sunderland, e la consonante sibilante diventa dentale…

A 16 anni durante un match si accorge di una sorta di aiuto massaggiatore, che soccorre gli infortunati con secchio e spugna. E’ un tipo corpulento, un po’ buffo e goffo; lui lo prende in giro, ma accetterà di averlo come autista fino all’età della patente e poi i due diventeranno inseparabili compagni di scorribande (fino al 2014): il celebre Jimmy “Cinquepance” Gardner.

Anche allora il Newcastle non era al vertice del calcio inglese, per cui era chiaro che un simile talento non sarebbe rimasto lì a lungo. La prima offerta la fece Alex Ferguson, appena arrivato al Manchester United, ma fu superata da quella del Tottenham, così Gascoigne e Jimmy “Fivebellies” si trasferirono a Londra.

Due ottimi anni lo proiettarono in nazionale, dove iniziò un bellissimo rapporto con Bobby Robson, che con lui usava un po’ il bastone e un po’ la carota.

I mondiali del 1990 in Italia consacrano Gascoigne a livello internazionale e soprattutto come personaggio popolare nell’opinione pubblica, anche per le lacrime dopo l’ammonizione con la Germania, che gli avrebbe fatto saltare la finale (Gazza nel libro dice che Berthold ha simulato, ma il fallo c’era eccome, anche con il metro di allora…). Come o forse più di Schillaci, diventa un’icona mondiale; si parla giustamente di Gazzamania, e lui diventa testimonial di tantissimi prodotti. In quell’anno, inoltre, reincide con i Lindisfarne una vecchia hit, Fog of the Tyne, che conquista il secondo posto nelle hit parade ed un disco d’oro.

Nell’annata 1990/91 si conferma a buoni livelli nel Tottenham, che però è fortemente indebitato (18 milioni di sterline: cifra piuttosto ridicola oggi, ma non allora) per cui lo mette in vendita chiedendo addirittura 20 milioni.

A gennaio del 1991 la Lazio di Calleri ne offre 8,5 ed il Tottenham accetta senza interpellare Gascoigne. Lui nel libro scrive di esserci rimasto malissimo, anche perché della Lazio non conosceva neanche l’esistenza; però non potè rifiutare e pose solo una condizione: firmare solo dopo la fine dell’avventura del Tottenham in FA Cup.

Forse (anzi, probabilmente) anche per questo, Gascoigne giocò una magnifica semifinale con l’Arsenal (risolta da una sua splendida punizione da 30 metri: https://www.youtube.com/watch?v=zYGSW7PGLVg) e trascinò i compagni a quella che sarebbe stata la sua ultima partita con gli Hotspurs. La finale con il Nottingham Forrest è un evento spartiacque della sua carriera e della sua stessa vita; è stato scritto (lui nel libro conferma solo in parte) che per settimane Gascoigne dormì pochissimo ed assunse farmaci calmanti. Di sicuro entrò in campo con un livello di aggressività ben superiore al solito, giudicato assolutamente sproporzionato nelle autobiografie di due avversari di quella partita (Stuart Pearce e Roy Keane) che sull’aggressività hanno sempre avuto u metro di giudizio molto, molto flessibile… :-). Dopo pochi minuti, sulla fascia destra, centrò in pieno con i tacchetti lo sterno di Gerry Parker: un fallo che oggi sarebbe da rosso diretto senza il minimo dubbio, ma che l’arbitro Milford lasciò passare. Gascoigne al riguardo ha sempre detto di non averlo voluto colpire, ma nel libro scrive che “forse sarebbe stato meglio se in quell’occasione l’arbitro mi avesse ammonito”. Dieci minuti dopo si trovò poco fuori area a fronteggiare Gary Charles quasi da ultimo uomo, e lo abbattè con un intervento molto brutto, anche se meno plateale, gratuito e scomposto del primo. In questo caso l’arbitro estrasse il giallo, Tutti si preoccuparono di Charles (che un po’ a fatica si riprese), ma entrò anche il medico del Tottenham. Gascoigne gli disse “ce la faccio”, anche perché la punizione era pericolosa e doveva andare in barriera. Fece a tempo a vedere il gol di Pearce, e si accasciò per terra “come una bambola di pezza”.  Fu portato fuori in barella e direttamente all’ospedale, dove i compagni gli portarono la coppa vinta in rimonta. Qui Gascoigne scrive che in quel momento l’unico elemento di consolazione fu pensare che l’infortunio avrebbe fatto saltare l’affare con la Lazio, dato che non aveva ancora firmato. Ma la nuova proprietà (Cragnotti) confermò la volontà di acquistarlo – seppur ad un prezzo più basso – e si presentò in ospedale con grande cordialità ed un costosissimo Rolex. Quando poi arrivò il momento di firmare, Paul si accorse che la volontà di averlo era totale. Il dg Manzini gli chiese se oltre alla casa avrebbe gradito qualche benefit particolare, e Gazza “abbastanza per scherzo” disse “sì, un allevamento di trote”; Manzini non battè ciglio e disse “ok, nessun problema”. L'ottenne.

Il recupero fu lunghissimo, praticamente 15 mesi, ma alla fine Gascoigne esordì in campionato, in casa contro il Genoa. Racconta che dopo pochi minuti Bortolazzi gli fece un’entrata dura sul ginocchio operato e sull’Olimpico calò il silenzio. Lui si rialzò e disse a Bortolazzi, in italiano, “grazie, caro”.

La settimana successiva andarono a sfidare il Milan di Capello, e dopo un inizio promettente presero una sonora imbarcata. Nell’intervallo Gazza fece una scenata alla squadra, perché non concepiva un atteggiamento così rinunciatario. Zoff lo affrontò e gli disse “stai zitto! Tu del calcio italiano non sai un cavolo (ok, non era cavolo :-)). In generale, come quasi tutti i giocatori britannici, non accattava e non capiva l’attendismo, la fase di studio c che caratterizza le nostre partite  (Ian Rush ha scritto che i primi tempi in Italia non servono a niente). Gascoigne ne fa una questione di spazio, oltre che di tempo; dice, infatti: gli italiani arrivano lentamente sulla trequarti, solo lì accelerano, piazzano la zampata e vedi la qualità (che comunque si aspettava superiore). Gli era insopportabile che le squadre non si scannassero dal fischio d’inizio alla fine, ma tant’è. Di Zoff ha molta stima, ed anche di tutti i compagni di squadra, cui riserva una parte dei suoi infiniti ed almeno discutibili scherzi (tipo un serpente morto trovato nella sua piscina, che finisce in una tasca della giacca di Di Matteo; ma ce ne sono di molto peggiori).

Perfino con Zeman, l’anno successivo, non ha grossi problemi, a parte un giorno in cui viene torchiato per perdere peso: gli commissiona un tragitto con la bicicletta e quando rientra Zeman gli dice di rifarlo subito, ma stavolta a piedi e di corsa. Lui si infuria e getta 5 bici dalle scale del centro sportivo, danneggiandole (le ripagherà) ma non ferendo nessuno. Poi però arriva il secondo infortunio: tibia e perone rotti in uno scontro con il giovanissimo Alessandro Nesta. Inizia un altro lungo recupero, e poi capisce che è il momento di andare via. Dell’Italia parla solo bene, ricorda soprattutto il gol nel derby, segnato di testa abbastanza per caso (di solito non andava a saltare in area). A parte l’enorme numero di gare non giocate (2 su 3, più tutte quelle europee), non si può dire che da noi abbia lasciato il segno.

Va molto meglio ai Rangers di Glasgow, dove si segnala per ottime prestazioni (in un contesto più facile..) e per la bravata di prendere in giro i cattolici del Celtic con un gesto irriverente che scatena un putiferio e provoca minacce di morte dall’Ira (girerà sotto scorta per un po’ di tempo). Riguadagna però la nazionale, e soprattutto viene convocato per gli europei inglesi del 1996, dove segna alla Scozia uno dei suoi gol più belli (con sombrero di sinistro su Colin Hendry e fiondata di destro:  salvo uscire nuovamente in semifinale ai rigori con la Germania.

Grandissima delusione, ma minore di quella che avrà due anni dopo, quando Glenn Hoddle lo convoca per il pre-ritiro dei mondiali francesi scartandolo però alla fine. Saputo dell’esclusione, Gascoigne chiede il perché al c.t. e gli distrugge letteralmente l’ufficio; alla fine, il serafico Hoddle gli dice: “vedi perché ti ho escluso? Non sei affidabile”.

Da lì inizia una parabola discendente sia a livello calcistico che personale. L’anno successivo, al termine di uno dei numerosi litigi, colpisce la moglie Sheryl – sposata nel 1996, dopo lunga e tormentata convivenza - e lei chiede il divorzio, ottenendolo con grave danno anche finanziario per Gascoigne. La coppia aveva avuto un figlio, Regan, e Gascoigne aveva adottato i due figli avuti in precedenza da Sheryl.

Il libro è stato scritto nel 2004, l’anno del ritiro dal calcio giocato (dopo Glasgow, Middlesbrough, Everton, Burnley, Bansu Tianme in Cina, Boston Utd in Major League USA).

Già allora il declino sul campo era stato accompagnato ed accelerato dal peggiorare dell’alcolismo e dei problemi connessi. Purtroppo in seguito le cose non sono affatto migliorate (lo confermano recenti cronache, dopo varie drammatiche crisi), e l’immagine spettrale di oggi aggiunge solo ulteriore tristezza. Anche la carriera da allenatore, in quelle condizioni, non poteva decollare ed ha avuto brevissima durata.

Nel libro, Gazza rifiuta il giudizio che viene comunemente dato su di lui (uno che ha buttato via il suo talento), ed anzi lo ribalta, affermando che, con le difficoltà affrontate, è arrivato incredibilmente in alto, ed ha evitato una fine peggiore. Rimpiange solo di non avere avuto un aiuto psichiatrico da bambino.

E’ impossibile capire se qualcuno avrebbe potuto aiutarlo molto di più, sia da giovane (Ferguson, ad esempio) che da adulto.

Di sicuro è stato un giocatore fantastico, per certi aspetti unico. A parte, forse, Rooney non ricordo un mix così esplosivo ed equilibrato di talento e grinta: di solito una cosa prevale decisamente sull’altra. Qui era come avere Vinnie Jones con i piedi di Schuster. Non veloce, non rapido, non virtuoso, non molto bravo nel gioco aereo (derby a parte :-)), ma certamente un grandissimo interprete del ruolo di centrocampista box to box, agevolato dall’essere praticamente ambidestro (il sinistro lo allenò per settimane da giovane, quando si fece male alla caviglia destra).  Il tratto distintivo rimane il tiro e soprattutto quel dribbling fatto col tronco, disorientando gli avversari senza quasi deviare dalla sua linea di corsa.

Anche se lui lo nega recisamente, è difficile sostenere che sia tornato ai suoi livelli dopo l’infortunio del 1991.

Rimane comunque uno dei maggiori talenti prodotti dal calcio britannico. Adesso c’è solo da augurarsi che non soccomba ai suoi dèmoni, e trovi l’aiuto per sconfiggerli, o quantomeno per fare con loro un patto onesto.

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