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TIRO

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"RICORDATI DI DIMENTICARE LA PAURA"

Niccolò Camprani

Mondadori, 2013

Confesso candidamente: ho iniziato a leggere questo libro quasi solo in funzione del blog, per estendere i temi di discussione a sport diversi da quelli più conosciuti e praticati.

In realtà mi aveva colpito il titolo, che fa riferimento ad un tema – la gestione della paura – presente con varie sfumature in quasi tutte le altre pubblicazioni di sportivi.

E la curiosità era aumentata collegando questo tema ad una disciplina sportiva così particolare, legata ad un gesto istantaneo e ad un margine di errore così ridotto (“lo spessore di una moneta da 10 centesimi”, sottolinea l’Autore).

Devo dire che la lettura è stata una piacevolissima sorpresa, sotto tutti i punti di vista.

Per quanto riguarda la carriera sportiva, il libro descrive bene la bellezza e le difficoltà degli sport di tiro (la carabina, in particolare): si tratta di discipline “povere” (non si praticano certo per soldi), individuali nel senso più stretto del termine e legate ad una gestione del tempo molto particolare: gli anni di allenamenti piuttosto ripetitivi, la concentrazione in gara da mantenere per ore, i secondi della preparazione della postura ed infine l’attimo in cui si decide di sparare...

A livello mentale, le particolarità ora citate comportano uno stress enorme, che Campriani descrive in maniera estremamente efficace, tornando al rapporto con la paura menzionato nel titolo (“Il corpo risponde al cervello ed il cervello risponde al cuore. Ma il cuore, bè, il cuore non risponde a nessuno. Fa come gli pare”).

Dopo tanti riconoscimenti e trofei vinti in Italia e l’esperienza traumatica delle Olimpiadi di Pechino, la svolta avviene con il trasferimento negli Stati Uniti, e precisamente nell’università di Morgantown in West Virginia, dove Campriani completa il corso di studi con la laurea in ingegneria gestionale, ma soprattutto apprende un modello di approccio allo sport ed alla competizione diametralmente opposto a quello conosciuto nel nostro Paese.  

Grazie agli insegnamenti del professor Ed Etzel – a sua volta ex tiratore nella nazionale USA, divenuto poi docente di psicologia – sperimenta metodi innovativi come l’ipnosi, l’autoipnosi ed il neuro feedback, ed apprende alcuni principi della filosofia zen, a partire da un testo piuttosto noto, basato proprio sull’arte del tiro (Lo zen e il tiro con l’arco, del filosofo tedesco Eugen Herrigel).  Se in Italia la dote più apprezzata di Campriani era stata l’agonismo, la feroce e quasi maniacale ricerca della vittoria che si manifestava nei tiri decisivi con una micidiale e spesso utile tensione, la nuova impostazione richiedeva invece il distacco totale del gesto dal risultato, la disconnessione dalle passioni (positive e negative) e la ricerca di un movimento fluido, naturale, “puro”. In questo, infatti, consiste il “dimenticare la paura”.

Superato il comprensibile scetticismo iniziale – abbandonare un modello vincente è sempre molto difficile, figurarsi in uno sport così – Campriani ha iniziato a vedere i risultati sperati non solo in pedana, ma più in generale superando ansie e frustrazioni collegate alle prestazioni, che a volte erano state somatizzate in specifiche patologie (gastrite, disturbi del sonno).

L’altro aspetto del libro, non meno bello, riguarda la parte più strettamente personale (peraltro, molto legata a quella sportiva). L’Autore racconta l’infanzia serena a Sesto Fiorentino, l’incontro a 13 anni con un manuale di tiro scritto in cirillico (ma con tante illustrazioni..) che lo avvicina al primo poligono, l’immediata consapevolezza del proprio talento, assecondato da un padre appassionato ma non oppressivo e da una madre molto presente. La trafila nelle nazionali lo porta poi ad incontrare la sua futura moglie, Petra Zublazing, anche lei campionessa di tiro. Un rapporto che inizia con una discreta diffidenza (di lei verso lui), ma decolla presto e diventa fondamentale per l’equilibrio di Campriani.

Altro legame importante è quello con l’amico e collega Mattew Emmons, campione statunitense che, nonostante la competizione, diventa compagno di allenamenti e perfino consigliere.

Il libro è scritto con grande chiarezza ed ironia, per cui la lettura è estremamente piacevole. Per certi aspetti – e so di fare un paragone impegnativo – mi ha ricordato Open di Andre Agassi: mi riferisco in particolare al pathos delle gare che l’Autore riesce a trasmettere molto bene, e che nel mio caso è stato accentuato sia dall’ignoranza in materia di carabina, sia dal non aver voluto conoscere i risultati di Campriani prima di iniziare a leggere (è stata un’ottima idea, e per la stessa ragione li ometto in questa recensione).

Alla fine, oltre alla bella storia di un grande sportivo italiano, rimane la riflessione sul tema di fondo del titolo e dell’opera, che in questa epoca e soprattutto nel nostro Paese ha assunto un’importanza per certi versi allarmante.

Il rapporto con la competizione, la vittoria e soprattutto la sconfitta da noi non è mai stato particolarmente sereno. Nel suo primo libro (intitolato opportunamente The italian job), Gianluca Vialli afferma lucidamente che “in Italia vincere non è una gioia, è un sollievo”; è da questa logica che Campriani è uscito, o meglio scappato.

Naturalmente non si tratta di dare al libro qui esaminato un significato moralistico, o di trasformarci tutti in monaci tibetani J. Il modello che Campriani descrive e promuove non è puramente etico, e non prescinde affatto dalla ricerca della vittoria; al contrario, è considerato il modo più diretto e sicuro per conseguirla. Qualcosa del genere si può trovare nella filosofia sportiva di Johan Cruyff, ma è lecito dubitare che possa trovare applicazione su larga scala nello sport moderno.

D’altra parte, occorre ammettere che il modello competitivo tradizionale ha dato grandi risultati in termini di vittorie, ed ha portato a coniare numerosi motti poco in linea con quello attribuito a De Coubertain (si pensi ai tremendi aforismi di Enzo Ferrari). Le rivalità spietate, la rabbia tratta da eventi sportivi e sociali sono stati un combustibile potentissimo, difficilmente sostituibile. Ed ancor più lo è stato l’odio assoluto verso la sconfitta, che secondo la stragrande maggioranza degli sportivi ha un’intensità assolutamente superiore rispetto alla gioia del successo. 

Però, senza inutili retoriche, mi sembra che negli ultimi anni l’idolatria o la necessità (anche in termini economici) della vittoria abbiano contribuito a determinare un livello di maleducazione ed antisportività troppo diffuso, soprattutto in Italia; per accorgersene è sufficiente frequentare una qualsiasi manifestazione, e fare il confronto con i decenni passati. Il che è intollerabile e va combattuto.

Anche in questo senso il libro di Campriani fornisce esempi positivi e buoni spunti di riflessione.

 

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