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"THE PLAYER"

Boris Becker

Bentam Press 2004

Il titolo di questo libro è stato scelto con sapiente cura, perché da un lato descrive la professione svolta dall’Autore nella prima parte della sua vita, e dall’altro richiama l’omonimo e celebre romanzo di Fedor Dostoevskij, ambientato in Germania ed incentrato – anche in quel caso, con tratti autobiografici – sul gioco d’azzardo, ovvero su un’altra passione che ha caratterizzato la vita di Boris Franz Becker.

Il primo dei due nomi è legato ad un altro famoso romanzo – Il Dottor Zivago di Boris Pasternak, cui la madre si appassionò durante la gravidanza –, mentre il secondo, come da tradizione familiare, fu ripreso da quello del nonno paterno.

L’infanzia, vissuta nella piccola cittadina di Leimen, è descritta come molto serena e subito caratterizzata dall’incontro con lo sport.

Sebbene Becker affermi di avere avuto talento e passione anche per il calcio (giocava a centrocampo), la scelta cadde quasi subito sul tennis, in cui emersero qualità così straordinarie da giustificare la dispensa dall’obbligo scolastico dopo le scuole medie da parte del Ministero dell’Istruzione tedesco.

Un po’ come per Sampras, e a differenza di Agassi, l’avvicinamento al professionismo è avvenuto in maniera molto naturale, senza pressioni da parte della famiglia. Il processo di crescita è stato, oltretutto, agevolato da due figure importanti del mondo del tennis - Gunter Bosch per la parte tecnica e Ion Tiriac per quella manageriale – ed ha subìto una svolta decisiva nel 1985 con la vittoria di Wimbledon.

Becker scrive di aver vissuto quell’evento in totale incoscienza: la vittoria non lo ha stupito, semplicemente non ci ha pensato granché. L’unica vera preoccupazione è stata quella di affrontare il ballo con la vincitrice del singolare femminile, salvo scoprire con grande sollievo che era stato eliminato qualche anno prima dal programma dei festeggiamenti.

E tuttavia, quella vittoria ha costituito sicuramente il momento più importante della vita di Becker, perché ha orientato ed accelerato, non sempre in senso positivo, tutti gli eventi successivi. Oltre a migliorare considerevolmente i guadagni (Tiriac gli disse subito: “Aggiungeremo uno zero in ogni contratto!”) e la posizione nel ranking ATP, l’impresa di Londra ha catapultato il giovane tedesco in un mondo di enormi pressioni sportive e mediatiche, che lui non era ancora pronto ad affrontare. Nel libro l’Autore torna più volte su questo aspetto, arrivando ad affermare che “il Boris di Leimen è scomparso nel 1985 e ne è emerso un altro”, e che non vincere quel torneo avrebbe consentito uno sviluppo migliore del suo gioco e della sua personalità.

In ogni caso, Becker scrive di sentire molto più sua la vittoria dell’anno successivo contro Lendl, ottenuta nello stesso scenario ma in piena consapevolezza.

Gli anni seguenti sono stati caratterizzati da risultati buoni ma un po’ altalenanti. Nel complesso si può dire che Becker non ha vinto tantissimo (49 tornei complessivi, 6 tornei dello Slam), però bisogna stare attenti a non giudicare i dati con i criteri del tennis attuale, dominato da tre o quattro interpreti che hanno acquisito una notevole longevità agonistica, spartendosi praticamente tutti i trofei più ambiti. Tra metà degli anni 80 e la fine degli anni 90 si potevano contare almeno una decina di altri grandi tennisti (Edberg, Courier, Sampras, Agassi, McEnroe, Lendl, Stich, Muster, Wilander, Chang, Ivanisevic), più una “seconda fascia” molto nutrita (mine vaganti come Krajicek, Mecir, Cash, Leconte, Rios, Bruguera e tanti altri), per cui le possibilità di vittoria erano molto più limitate.

E’, tuttavia, opinione piuttosto diffusa che Becker abbia dilapidato buona parte del suo talento naturale con atteggiamenti e scelte sbagliate. Per quanto sia quasi sempre impossibile (e, comunque, sbagliato) isolare gli aspetti positivi e negativi della personalità di un giocatore, nel libro si trovano in proposito alcune conferme. Ciò avviene, in particolare, nel capitolo affidato dall’Autore alla penna di Ion Tiriac, con il quale i rapporti professionali si ruppero in maniera abbastanza traumatica. Il manager romeno descrive bene il tratto di cocciutaggine e ribellismo che ha portato Becker a disattendere, con alterni risultati, molti suoi consigli basati su una intuitiva logica tennistica. Sfidare da fondo campo regolaristi come Connors o “martelli” come Agassi poteva anche essere nelle possibilità del tennista tedesco, ma non era certo la soluzione preferibile, e trovava giustificazione solo nell’ostinazione ed in una fin troppo grande autostima.

Sulla testarda illogicità delle strategie di gara di Becker si sono espressi, nei rispettivi celebri libri, anche Agassi e Brad Gilbert. L’interessato non fa, invece, alcuna ammissione in questo senso, e dà una spiegazione abbastanza fatalista anche delle difficoltà sulla terra rossa, dove non ha mai vinto un torneo ATP.

Altro tallone d’achille sono stati gli accessi d’ira e la perdita di concentrazione in cui il tennista tedesco era solito incorrere durante le partite. Anche questi sono stati utilizzati ed indotti dagli avversari, soprattutto per bilanciare il gap fisico e tecnico sfavorevole.

Certamente, e notoriamente, sul rendimento in campo hanno inciso diverse vicende della vita privata di Becker. Quelle che nel libro trovano maggior spazio sono sostanzialmente due: i problemi sentimentali e quelli con il Fisco del suo Paese.

Il legame con la modella afroamericana Barbara Feltus, che ha portato alla nascita di due figli, è stato segnato da forti polemiche in Germania a causa di alcuni commenti considerati razzisti, e si è concluso con il divorzio nel 2001, al termine di una causa che Becker descrive come lunga ed estenuante. La nascita della terza figlia, avvenuta a Londra un anno prima, è stata fonte di ulteriori problemi.

Nello stesso periodo si è concluso un altro processo, in cui il tennista tedesco è stato chiamato a rispondere di evasione fiscale sui redditi maturati in anni (1992 e 1993) nei quali risiedeva a Montecarlo. L’inchiesta, iniziata nel 1996, viene descritta come particolarmente aggressiva, ingiustificata ed ispirata da un sentimento di invidia sociale considerato tipico del popolo tedesco.  Le ultime udienze sono raccontate in maniera simile alle partite giocate, ma il risultato finale non trova riscontro nel tennis, essendo assimilabile ad un pareggio. La condanna a due anni di reclusione con la sospensione condizionale, oltre ad una multa e al versamento delle imposte evase, ha creato certamente molti guai a Becker (ad esempio, per le misure post 11 settembre, in quanto pregiudicato e per problemi di visto viene tenuto una notte in una specie di galera a Miami, e poi rispedito in Germania), ma gli ha evitato di finire in prigione, come sarebbe avvenuto se fosse stata accolta la richiesta della pubblica accusa – 3 anni e 6 mesi – e come era capitato in quegli anni e per la stessa imputazione al padre di Steffi Graf ed al presidente del Bayern Monaco Uli Hoeness.

La decisione del Tribunale è stata, dunque, accolta con sollievo, ma è indubbio che il grande stress della vicenda giudiziaria abbia inciso pesantemente anche sulle prestazioni sportive.   

Un altro fattore negativo ben descritto nel libro è rappresentato dall’uso (diventato, nel tempo, abuso) di sonniferi ed a qualche cedimento di troppo alle bevande alcoliche.

Molto interessante è anche la parte dell’opera più direttamente legata al tennis. Dei colleghi-avversari l’Autore parla in maniera abbastanza distaccata. Dal punto di vista personale non si racconta alcun rapporto di amicizia, ma questo è considerato normale ed addirittura necessario per non svelare aspetti importanti del proprio gioco e della propria personalità.

L’unico avversario che Becker riconosce superiore a sé è Pete Sampras; ed infatti, la sconfitta del 1995 a Wimbledon ha segnato un sostanziale passaggio di consegne sul green londinese e l’inizio del lungo addio alle gare (curiosamente, lo stesso avverrà anni dopo tra Sampras e Federer, come raccontato dal tennista americano nella sua autobiografia).

Meno considerazione si ha per Edberg (che pure, nelle finali, è stato l’avversario più frequente) e soprattutto per Lendl, di cui si fa un profilo decisamente negativo a livello umano (al contrario di quanto fa Sampras nel suo libro). Poche e tremende righe vengono dedicate da Becker anche a Nick Bollettieri, che per un breve periodo lo ha seguito come coach.

Viene, poi, citato più volte Andre Agassi, altro rivale storico: dopo una lunga e reciproca antipatia, alcuni incontri abbastanza casuali – prima all’Oktoberfest, poi durante un safari in Sudafrica – consentono di instaurare un rapporto quantomeno cordiale. In quest’ambito si racconta anche il celebre “aneddoto della lingua” (mentre bevono una birra, Agassi gli confessa di aver capito per anni la direzione del servizio da quella della lingua, che Becker aveva l’inconscia abitudine di mostrare prima della battuta).

Abbastanza buono risulta il rapporto con McEnroe; a lui viene affidato un capitolo del libro, che contiene giudizi lusinghieri su Becker, sia a livello sportivo che in termini personali.

La parte iniziale e quella conclusiva dell’opera sono dedicate alla gestione del periodo post agonistico. L’elemento centrale in questo senso è costituito dalla famiglia, più volte richiamata nel volume anche attraverso ricordi e riflessioni sulla figura dei genitori.

Il volume è stato pubblicato nel 2004, ossia cinque anni dopo l’ultimo match, giocato “ovviamente” a Wimbledon. Nel periodo successivo Becker si è risposato, è tornato ad occuparsi di tennis giocando nel circuito senior ed entrando (seppur non come allenatore) nello staff di Djokovic. Ha, inoltre, coltivato le passioni per il golf ed il poker hold’em, e fatto parlare di sé anche per gravi difficoltà finanziarie.

Nel complesso, il libro delinea bene l’immagine di una delle personalità più complesse, inquiete ed interessanti del mondo del tennis, caratterizzata da tanti pregi e da alcuni limiti. Di certo, si tratta un personaggio che è andato molto oltre le linee del campo (belle, ad esempio, le descrizioni degli incontri con Nelson Mandela e Mohamed Ali), ma che anche per questo, come durante i match, ha avuto e può ancora avere in sé stesso un avversario insidioso da affrontare in quello che definisce il “tournement called life”.

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